Piacere Jago.
Anagni, Luglio 2016. Di fianco al Duomo, c’è un piccolo bar ed è qui che ho appuntamento con Jacopo Cardillo in arte Jago.
Ho saputo di lui una sera qualsiasi, guardando per caso un video su Facebook il cui incipit recitava così: “Mi chiamo Jago, ho 30 anni, sono un artista e sono ciociaro”. Quel “sono ciociaro” ha risuonato dentro di me come se fosse una parola sconosciuta, raramente sentita sul web o al di fuori della mia terra. Solo dopo mi rendo conto che quel ragazzo aveva scelto un aggettivo ben preciso per presentarsi al mondo, raccontandoci del popolo a cui appartiene e dal quale ha ereditato bellezze e bruttezze, cultura e barbarie. Il senso di appartenenza che ha espresso nelle sue parole mi ha colpito, tanto che mi ritrovo dietro lo schermo del mio smartphone a scrivere una lunga mail che ha portato, qualche giorno dopo, a questo incontro.
Ci spostiamo nel suo studio mentre parliamo di giovani, di arte e… di marmo. Un materiale che non avevo mai visto negli studi dei giovani artisti contemporanei, ma che avevo sempre associato a Michelangelo, a Bernini, a Canova, al Rinascimento e al Neoclassicismo. Jacopo inizia a raccontarmi come nasce il suo lavoro, mentre io mi guardo intorno e inizio ad immaginarlo mentre scolpisce pazientemente questi blocchi. Mi racconta dell’acqua del fiume che leviga, giorno dopo giorno, i suoi sassi. Scopro che le opere davanti alle quali mi trovo sono come finestre, come vuoti che l’artista riempie di nuovi mondi. Bisogna fare uno sforzo per ricordare che i suoi lavori sono di marmo; non di cera, non di ceramica, ma di una pietra dura e splendente, eppure sembra morbida e duttile. Il suo studio ha il sapore e l’odore di un attesa elettrizzante, che si muove tra la pazienza a cui ti costringe il processo di scolpire e l’impazienza di vedere l’opera realizzata e viva.
Ho iniziato così a seguire il suo lavoro e pian piano nella mia mente prendevano forme diverse quelle parole che inizialmente mi stupirono nel suo video: “sono ciociaro”. Mi rendo conto che in quanto italiani, i nostri occhi sono abituati ad osservare il bello nella sua accezione più alta, incarnato nel patrimonio artistico che ci circonda. Anagni, città dei Papi e ricca di beni artistici come la cosiddetta “Cappella Sistina del Medioevo”, ha permesso a Jacopo di operare una stratificazione tra elementi “vecchi”, come l’utilizzo del marmo e del medium della scultura, e nuovi, come i soggetti e i temi da lui affrontati (la spoliazione di Papa Benedetto XVI). Questa stratificazione ci permette di distinguere “il bello” e di vederlo in rapporto con il nostro ambiente, la nostra storia, il nostro paesaggio. Così Jacopo cita nelle sue opere elementi che appartengono, nell’immaginario collettivo al nostro patrimonio artistico e ci permette di rielaborarli e trasformarli nella nostra attualità.
Un segno distintivo dell’opera di Jacopo è la pelle con cui “veste” le sue opere, riuscendo a riprodurre sul marmo tutti quegli infiniti dettagli che ricoprono il nostro corpo, vene o rughe, che se nel reale sono segni di debolezza o bruttezza, diventano, impresse nel marmo, elementi distintivi e caratterizzanti dell’animo umano, in cui ognuno di noi può perdersi e ritrovarsi, in un moto perpetuo che ci porta a considerare il rapporto tra interno ed esterno, tra oggettivo e soggettivo. Non a caso Jago sceglie la pelle, elemento di separazione e protezione tra la nostra realtà interna e l’esterno. Un famoso storico dell’Arte, Giulio Carlo Argan disse che L’arte non rappresenta, rivela per segni una realtà che è al di qua o al di là della coscienza. Le immagini che salgono dal profondo dell’essere umano s’incontrano con quelle che provengono dall’esterno: il dipinto (o la scultura, in questo caso) è come uno schermo diafano attraverso i quale si attua una misteriosa osmosi, si stabilisce una continuità tra il mondo oggettivo e il soggettivo.